Era un anno imprecisato dei primi anni ‘90, quindi non potevo avere più di 4-5 anni quando mi decisi a imparare ad andare in bicicletta senza le rotelle di supporto: dovevo riuscire a pedalare rimanendo in equilibrio senza quell’aiuto che ormai mi sembrava per “bambini”.
Ero nella villetta a Sannicandro, tanto umile quanto accogliente come una seconda casa, in una tipica domenica primaverile. I miei avevano invitato una coppia di amici storici con i due figli della mia età o poco meno, che erano soliti giocare a calcio con mio fratello, il più grande di tutti. Spesso mi univo a giocare con loro, nonostante fossi l’unica bambina, ma quel giorno avevo un obiettivo e mi isolai dal resto del gruppo.
Mio padre aveva tolto le rotelle di supporto alla mia bici e io avevo iniziato pian piano a sfruttare la leggera pendenza del vialetto di ingresso, cercando di non intralciare gli altri che giocavano. Ma le cose non stavano andando come speravo: la sensazione di vertigine e la paura di cadere ebbero la meglio, e i primi tentativi fallirono miseramente. Passarono le ore e io ero lì, a fare avanti e indietro sul vialetto in pendenza, senza mai riuscire a staccare del tutto i piedi da terra. All’improvviso, sollevando le gambe e pedalando in uno dei tentativi un po’ più coraggiosi, caddi rovinosamente sbucciandomi il ginocchio. Iniziai a piangere: non era la prima volta che mi facevo male, ma in quell’occasione la ferita bruciava particolarmente e mi sentii sopraffatta, forse anche per l’ennesimo fallimento di quella mattina.
“Silvì, stai tranquilla, non è successo nulla! Ci riproverai la prossima volta che veniamo qui” – disse mia madre consolandomi mentre mi soccorreva.
Mi sentii amata da quelle parole, ma non ero per nulla soddisfatta di quello che avevo ottenuto: una ferita, delle lacrime e tanta delusione.
“Rimetto le rotelle alla bici?” – disse mio padre dopo avermi pulito e incerottato il ginocchio.
“No, ci riprovo” – risposi rimettendomi sul sellino e ignorando che tutti fossero a tavola per mangiare, tranne me.
Dopo un’altra ora di tentativi, come per magia riuscii a pedalare lungo tutto il vialetto senza mai cadere, in un flebile ma efficace equilibrio che avevo rincorso per tutto il giorno.
“Mamma, mamma guarda! Ci sono riuscita!” – dissi col candido sorriso da bambina. Mia madre mi guardò incredula. “Che brava! Come hai fatto? Io ci misi una settimana per imparare”.
Non risposi, ma dentro di me ero felice di quel risultato: non avevo smesso di crederci neanche per un secondo.
