Lo so..non è un argomento piacevole..e soprattutto, non è facile avere un punto di vista univoco, dal momento che è uno dei topic più controversi al mondo..tuttavia secondo me è giusto parlarne. Per questo ho scelto di utilizzare la mia lingua madre per scrivere.
Cercherò di trattare l’argomento cercando di entrare il più possibile in empatia con le persone che hanno fatto, o continuano a fare, gesti simili. Spero non diate per scontato che il mio sentirmi così vicino a loro voglia dire necessariamente che io rientri in quella categoria di persone. Dunque incominciamo.
Molti di voi avranno sicuramente visto la stagione targata Netflix chiamata “13 Reasons Why”. Per quelli che l’hanno visto, immagino abbiate finito tutti i fazzoletti disponibili in casa vostra; per quelli che non l’hanno visto, che dire: è vero, è straziante, e quando vedrete la prima puntata vorrete finirlo in un giorno (in fondo sono solo 13 puntate), ma è una serie che apre tantissimi punti di discussione sulla VITA nel vero senso del termine, e mi sento di dire che ne vale la pena.
Nessuno spoiler: si sa sin da subito come va a finire, dal momento che dalla prima puntata si viene a sapere di questa ragazza adolescente, Hannah Baker, che si è tolta la vita e ha lasciato 13 audio cassette in cui spiega per filo e per segno i 13 motivi per cui ha compiuto quel gesto. Tuttavia la serie TV riesce, grazie anche ad alcuni colpi di scena, ad essere di una crudeltà e spietatezza talmente forti che ti prende il cuore e te lo strizza per benino facendolo passare per un tritacarne.
“Perché non partiamo da come ti senti in questo momento?”
“Persa..e un po’ svuotata..è come se non provassi niente..tipo..che non me ne importa più niente..di niente. Della scuola, dei miei compagni..dei miei..no è chiaro che di loro mi importa, ma non..io non sono come loro vorrebbero…non..un problema. […] Ho bisogno di fermarmi. Vorrei che tutto quanto si fermasse..le persone..la vita.”
E lei l’ha fermata. La sua vita.
Ma perché è saltata direttamente a quel gesto? Cosa la differenzia da un’autolesionista?
Il primo che pensa “Ma è solo un telefilm”, può subito interrompere la lettura…oppure volete degli esempi “reali”? Ok, vi servo subito.
Riporto 3 storie, in ordine cronologico, di persone che so per certo essere autolesioniste. Poi una quarta storia, di cui parlerò alla fine. Per la privacy, scriverò del contesto, ma cercherò di non fornire troppi dettagli.
La prima storia riguarda un ragazzo conosciuto quando andavo a scuola, al liceo, e avevo circa 14 anni. Sapevo già cosa fosse l’autolesionismo, seppur all’epoca non riuscivo a scriverne così, né a comprenderne appieno il significato. Ricordo che questa persona, più o meno della mia età, aveva parecchi problemi familiari. Quando voleva, poteva essere gentile e solare, a tratti anche divertente, ma la maggior parte delle volte era taciturno, spesso in disparte e isolato (più per sua scelta che per emarginazione sociale) e non parlava con nessuno. Ci frequentammo in amicizia per un po’, ma probabilmente avrete capito che non è facilissimo mantenere un rapporto con chi vuol essere solo lasciato in pace. Un giorno un’amica mi fece notare che, nonostante la calda giornata estiva, lui portava una maglia a maniche lunghe. Iniziai a fare più attenzione alla cosa e di lì a poco riuscii a notare un sacco di segni, come graffi o raschi, lungo gli interi avambracci. Lui notò il mio occhio cadere in quel punto e si ricoprì subito con le maniche. “Perché?” Mi chiesi. Ma in fondo il motivo un po’ lo sapevo. Non ebbi cuore di fargli domande. Non ho avuto né la prontezza, né la maturità di affrontare la cosa: ero spaventata quanto lo era lui. Son passati 12 anni, non sono più in contatto diretto con lui, ma sembra che stia bene.
La seconda storia è una ragazza che ho conosciuto in un ambiente lavorativo a 25 anni. La ragazza in questione è in realtà una donna adulta, ed è per questo che quando ho visto i segni sulle braccia non ho detto nulla, ancora una volta. Inoltre eravamo colleghe, non amiche. Lei comunque non li nasconde: se capita che qualcuno li veda, non le importa. Probabilmente sono molto vecchi, dato che erano delle lucenti cicatrici sulla pelle nera. Se ci parlaste, la donna potrebbe anche sembrare una persona tutto sommato normale, sempre se si riuscisse a prescindere dall’uso di alcool e droghe praticamente quotidiano che faceva. La invitai un paio di volte per qualche uscita a seguito della perdita di un genitore, ma l’unica tipologia di uscita contemplata dal contesto storico/sociale/ambientale in cui mi trovavo era “esco solo per bere e distruggermi”, quindi il rischio era persino di peggiorare le cose. Non so cosa stia facendo ora. Spero stia riuscendo al meglio a mantenere i cocci tutti insieme.
La terza storia è recentissima e riguarda una sconosciuta incontrata in metropolitana qui a Milano. Di rado mi capita di prendere la metro in orari davvero di punta, ma quella volta le tempistiche hanno voluto che durante il tragitto mi ritrovassi a pochi centimetri di distanza da una giovane ragazza tra i 17 e i 20 anni, stile dark/alternativo non troppo pesante, piercing al naso e cuffie alle orecchie. Ho avvertito sin da subito che ci fosse qualcosa di strano in lei. No, non erano i vestiti, ho avuto quello stile anch’io per un certo periodo. No. Pian piano ho capito cosa fosse: era il suo sguardo. C’era qualcosa in quello sguardo. Anzi, c’era TUTTO. Riporto nuovamente le parole di Hannah Baker: “è come se non provassi niente..tipo..che non me ne importa più niente..di niente.” Attenzione a questo passaggio: non si prova niente non perché si è diventati “insensibili” (Numb – Linkin Park), ma perché si è provato talmente tanto dolore che si arriva quasi ad annullarsi e ad essere non curanti delle cose che succedono, delle persone, dei contesti sociali, del proprio futuro, della propria vita. Ecco cosa ho visto in quello sguardo. Ho continuato a fissarla per qualche minuto, è stato più forte di me. Ma in fondo, avevo ragione: mi è caduto l’occhio sul suo polso quando ha preso il cellulare in mano per cambiare canzone: eccoli là, i segni freschi dell’autolesionismo. Ed ecco, puntuale come un orologio, il morso allo stomaco e il senso di disagio. No, non è il disagio di “ommioddio, è un’appestata, devo stargli lontana”. È il disagio del “cazzo, vorrei davvero fare qualcosa per aiutarti, ma cosa? Come reagiresti a un mio tentativo di avvicinamento? Mi allontaneresti? Mi prenderesti a parolacce? Ti sentiresti in imbarazzo (già, come se fosse una colpa il provare troppo dolore..)?”.
“No. Basta. Stavolta devo fare qualcosa, e ho anche pochi minuti perché non so a che fermata scenderai. Ho un’idea: lo faccio prima di scendere io, così ti sollevo dall’imbarazzo di doverti misurare con una situazione che non ti sei cercata tu. Hai le cuffie, quindi non può sentirmi. Ma puoi leggere.” – ho pensato.
Le ho scritto un messaggio su una nota dal mio telefono, le ho fatto delicatamente toc toc sulla spalla e gliel’ho mostrato: “So quello che provi e che stai passando. Non sei sola.”
Non mi aspettavo una reazione molto diversa da quella che effettivamente ha avuto: mi ha guardato con uno sguardo di desolata accettazione del problema e mi ha fatto spallucce. Era un “eh lo so..che ci devo/dobbiamo fare..”
È scesa alla mia stessa fermata, ma non ci siamo dette una parola. Ho fatto quello che dovevo, più o meno. Facciamo che mi piace pensarlo.
Un paio di considerazioni sulle 3 storie. Paradossalmente, dal caso 1 al caso 3 si è passati da un amico adolescente a una collega di lavoro a una perfetta sconosciuta. Perché allora solo alla terza occasione mi sono decisa a dire/scrivere qualcosa? Non lo so. Spero che la prossima volta io sia capace di fare un ulteriore passo in avanti e aiutare davvero chi capisco aver bisogno di aiuto.
L’altra considerazione che voglio fare è di più ampio respiro quindi sugli autolesionisti. Non tutti quelli che si sono tolti la vita sono stati degli autolesionisti (come Hannah Baker, che è passata “direttamente” al gesto estremo, non senza provare a rialzarsi, ma non voglio entrare troppo nell’analisi dei suicidi perché la mia verte più sugli autolesionisti), e non tutti gli autolesionisti lo sono perché vogliono uccidersi. Uno dei motivi che mi fa dire questo, è che gli autolesionisti sanno perfettamente come tagliarsi le vene, e se avessero voluto farla davvero finita, l’avrebbero già fatto. Il loro potrebbe essere un gesto per ricevere attenzioni (ragazzi, non è una cosa cattiva da dire, intendo che davvero per loro l’unico modo di “farsi sentire” è quello), oppure, come in molti casi, il loro gesto significa altro, ed è il secondo motivo per cui ritengo che non tutti gli autolesionisti vogliano uccidersi: a volte i pensieri e il dolore sono talmente FORTI che una voce nella loro testa (è la loro stessa mentre urlano per fare o evitare di fare quel gesto) consiglia loro di infliggersi un dolore fisico per non sentire quello mentale: sanno per certo che quella ferita fisica guarirà e possono permettersi di procurarsela. Il dolore ci sarà, ma per pochi giorni, e nel frattempo li avrà distratti dal vortice di emozioni che li stava torturando. Rimarranno le cicatrici. A ricordargli, seppur con una fitta al cuore dato che avrebbero voluto evitare quel gesto, che almeno sono ancora vivi.
Ecco cosa li differenzia dai suicidi. Tuttavia, seppur ancora vivi, il fatto che gli autolesionisti rischino grosso non è ASSOLUTAMENTE da ignorare. Senza contare che, futuri suicidi o no, STANNO COMUNQUE SOFFRENDO IMMENSAMENTE.
Riporto brevemente la quarta storia. Non perché non se ne possa parlare, ma perché nonostante siano passati 6 anni, fa ancora male e non riesco a parlarne per più di poche righe. È il caso di un mio amico che si tolse la vita.
Ecco, arriva il difficile. Lui faceva parte di un gruppo di amici che frequentavo ogni tanto. Non era molto facile costruire un rapporto con lui, poiché era molto introverso. Ma era buono. Era tra le persone buone a questo mondo. Stupidi noi, che nonostante sapessimo della sua sensibilità, non siamo riusciti a prevedere il peggio. Non eravamo “consapevoli”. Eppure ricordo che una volta, anni e anni prima del suo gesto, mi regalò una compilation di canzoni e la intitolò “Mr. Felicino”. Ricordo di aver sorriso per il contrasto del titolo che aveva scelto col suo essere sempre cupo e silenzioso. “E se, nel profondo, questo vuol dire che lui vorrebbe tanto essere felice, ma non riesce a esserlo e questo è un tentativo per farmelo sapere?” – pensai. Si ritorna ad uno dei 5 stadi del lutto, il senso di colpa, in un loop senza fine. Per questo non volevo parlarne.
Non vado poi a toccare il caso di Chester Bennington, cantante e leader dei Linkin Park. Basti dire che ho pianto sommessamente insieme a tutto il Fabrique durante buona parte del concerto Memorial tenutosi a Milano lo scorso Settembre. La domanda è sempre quella: PERCHÉ?
Vado a concludere questa brutta copia di un trattato di psicologia con un consiglio per due categorie di persone: quelle che soffrono e quelle che vedono/notano gli altri soffrire, e giro i consigli anche a me.
Se vedete qualcuno che soffre, se pensate che si stia facendo del male, parlategli. Provate ad approcciarvi in qualche modo, a voce, per messaggi, con una canzone di incoraggiamento, con un gesto. Insomma, FATE QUALCOSA. Non fate come me in molti dei casi su menzionati. Fatevi coraggio e non abbiate paura: quelli che tremano come foglie sono loro. Siate più forti voi, almeno per un secondo. Vedrete che quel coraggio verrà ricompensato in qualcosa di positivo, per loro perché sapranno che QUALCUNO c’è, e per voi, perché vi sentirete utili e un pelo meno deboli e più coraggiosi rispetto a prima.
E voi, che soffrite e non sapete a chi dirlo, come dirlo, perché dirlo, che credete che non c’è altra via se non quella di provare tutto per non sentire niente, a voi che credete di far schifo, che credete che se altri sapessero che vi tagliate vi tratterebbero come degli appestati, come dei pazzi con problemi mentali, sappiate che sarebbero loro in errore, non voi. E che per fortuna non tutti vi tratterebbero così, per fortuna c’è chi quel coraggio di parlarvi e starvi vicino ce l’ha, quel coraggio di farvi smettere di sentire una nullità e capire che non siete voi ad essere sbagliati, ma il mondo e le sue ingiustizie. E soprattutto sappiate che non siete soli. No. NON SIETE SOLI!
E dunque, ad entrambi i gruppi dico: urlate, se volete. Ma non state zitti. Non tenetevi tutto dentro. Parlatene. PARLATENE CAZZO.